lunedì 16 dicembre 2013
DA SOLI
Mi capita spesso, per lavoro, di pranzare da sola al bar e alle tavole calde. Non amo mangiare un panino in piedi al volo, lo faccio raramente e solo se strettamente necessario. Normalmente mi siedo e mi gusto un piatto caldo. Mi piace osservare le persone che, come me, siedono sole al tavolo a mangiare. Di solito sono più uomini che donne, ma indipendentemente dal sesso maschile o femminile, la sensazione è sempre la stessa, osservando queste persone e me stessa dall'esterno: una sensazione di profonda solitudine. Non so perché, ma osservando i volti di queste persone, con davanti il loro piattino di cibo, a prescindere dalla loro espressione felice o triste, percepisco un senso di solitudine estrema. Quella piccola porzione di tempo, quei trenta minuti che la persona si concede per nutrirsi, sono lo specchio di un'intera esistenza. In quei trenta minuti si è in mezzo alla folla, immersi in un via vai di persone prese dai propri pensieri e problemi, siamo tutti lì con lo stesso scopo, tutti insieme, eppure tutti soli. Ognuno solo con se stesso. Ognuno, in quei trenta minuti, si rende conto che, per quante persone abbia accanto a sé nella sua vita, per quanto possa condividere gioie e dolori con un numero piú o meno elevato di persone, arriva sempre quel momento in cui deve fare i conti, quelli veri, solo e soltanto con se stesso. Per quanto gli altri ci possano essere vicini, soli nasciamo e soli muoriamo. Quello che sentiamo, che proviamo, che sappiamo, il modo in cui lo sentiamo, lo proviamo e lo sappiamo, è solo e soltanto nostro. Gli altri ci possono ascoltare, capire, consolare, e possono gioire o rattristarsi con noi, ma non proveranno mai quello che proviamo noi in prima persona, neanche quando il dolore è comune. In quei trenta minuti davanti al piatto gli occhi fintamente impegnati ad osservare un po' di cibo sono in realtà smarriti in una consapevolezza di non poter contare davvero fino in fondo su nessuno se non su noi stessi. Trenta minuti in cui accanto a noi ci sono altre persone apparentemente nella nostra stessa situazione ma che in realtà hanno ognuna un mondo a sé. Un mondo fatto di tanti 'trenta minuti' in cui, qualunque sia la compagnia, siamo tutti intimamente e profondamente soli..
sabato 7 dicembre 2013
BABBO NATALE (non) ESISTE?
Ho sempre saputo che non esisteva, che erano i genitori e i parenti a delegare a una figura immaginaria le proprie responsabilità di fare felici i bambini a fine anno affidandosi ad una pietosa messinscena di cui si vergognavano loro per primi. Sono sempre stata una bambina precoce in tutto quello che riguardava la comprensione e l'intelletto, a differenza delle attività motorie in cui ero terribilmente in ritardo. Scrivevo e leggevo perfettamente già a quattro anni e nessuno poteva prendermi in giro. Non me lo potevo permettere. Non potevo permettermi di credere in qualcuno di cui non avevo mai sentito la voce, di fidarmi di qualcuno che non avevo mai visto. Sentivo di non potermi fidare fino in fondo neanche dei miei genitori, che conoscevo e vedevo ogni giorno. Figuriamoci di un Signor Babbo Natale qualunque. E comunque, a scanso di equivoci, nessuno aveva provato a farmi credere in questo vecchio signore dalla barba bianca, vestito di rosso. Provavo molta compassione per tutti i miei coetanei che credevano in questo tizio. 'Poverini', pensavo, 'li aspetta una grossa delusione. Quando scopriranno che non esiste sarà un trauma e capiranno quanto siano stupidi e quanto io sia intelligente.' Incredibile come la compassione verso gli altri negli anni si sia potuta tramutare in compassione verso me stessa, incredibile come quel senso di superiorità intellettiva si sia trasformato in senso di inferiorità emotiva. Incredibile come a un certo punto la bambina che non aveva mai creduto in niente si sia trasformata in una donna piena di rabbia, e ancor più incredibile come questa rabbia intossicante si sia infine trasformata in bulimica fame di vita, in forte voglia di rivalsa, in un sano desiderio incessante di sognare e di esaudire i propri sogni. Ho capito, negli anni, che Babbo Natale poteva esistere anche per me se solo ci avessi creduto, ho capito che avrebbe portato regali anche a me se solo li avessi chiesti e saputi aspettare. Bisogna credere nella magia affinché essa ci possa avvolgere, bisogna credere nei propri sogni affinché essi si avverino. Bisogna credere in Babbo Natale affinché arrivi e ci porti i regali. Ci vuole coraggio, per credere in ciò che sappiamo esistere solo nel nostro immaginario. Ci vuole coraggio per credere che il nostro immaginario sia l'anteprima della nostra realtà. Ci vuole un coraggio inaudito. Il coraggio di chi sogna e realizza i propri sogni, il coraggio di chi non si lascia scoraggiare dalla banale razionalità ed apparente evidenza, il coraggio di chi sa osare, di chi ci mette il cuore e di chi, quasi sempre, vince.
domenica 24 novembre 2013
UN BICCHIERE VUOTO
Ricorre oggi un anno dalla scomparsa del mio adorato coniglietto nano, Sanyu, che mi ha fatto compagnia per 13 anni. Ricordo come se fosse oggi l'immenso dolore e la sensazione di vuoto dei giorni a seguire. Un vuoto che non si è più colmato, nonostante la concreta pienezza della mia vita. Lo scorso Agosto avevo deciso di prendere un altro coniglietto. Siamo a fine Novembre, e ancora non l'ho preso. Le scuse, le giustificazioni, anche plausibili e fondate, sono molte. Per esempio, il fatto che viaggio spesso, che il weekend sono spesso fuori Roma, che durante la giornata non ci sono mai e che quindi il piccolino rimarrebbe troppo solo. Oppure il fatto che, da buon roditore, rosicchierebbe tutto quello che gli capita a tiro esattamente come fece da cucciolo Sanyu, e avendo io restaurato casa da poco e messo mobili, tappeti, tende e divani nuovi temo per la loro incolumità, o per quella del coniglio stesso nel caso mordesse i cavi elettrici di apparecchi elettronici di ogni tipo. La verità, però, è una sola. La giustificazione, o meglio l'alibi, ha un solo nome: PAURA. La paura della responsabilità a cui inevitabilmente si va incontro quando si ama e quando ci si deve prendere cura di qualcuno. La paura di aprire nuovamente il cuore a un esserino che prima o poi ti abbandonerà, la paura di un impegno quotidiano che richiede quella costanza che solo le grandi passioni e i grandi amori sono in grado di generare. La paura di non essere all'altezza del compito, la paura di non poter garantire il mio amore costantemente, ogni singolo momento della mia vita. In una parola, la paura di amare. Ricordo bene, come ho detto, il vuoto, la sensazione di abbandono, che ho provato il giorno che Sanyu è mancato. Ricordo anche bene però (e non voglio e non posso vigliaccamente negarlo) la sensazione di liberazione da un impegno e da una responsabilità che mi avevano accompagnata per 13 lunghi anni. Ricordo la meravigliosa sensazione di libertà, quella mia amata libertà, agognata e rincorsa tutta la vita, ottenuta a prezzi talvolta altissimi. In certi momenti, specialmente gli ultimi due anni, era faticoso accudire Sanyu. La presenza di quel povero esserino ormai molto anziano e malandato mi procurava più preoccupazioni e angosce che gioie. Mi guardo indietro, molto indietro, e scopro che, a ben guardare, è la stessa sensazione che ho avuto da bambina con i miei genitori. Fin da piccola, per la malattia che ha colpito mia madre quando avevo soli sette anni e che l'ha portata alla morte, e per la temporanea dipendenza dall'alcol di mio padre e tutti i suoi continui problemi di salute psicofisici che lo hanno accompagnato tutta la vita, ho sempre associato all'amore oneri, impegni, fatica, sofferenza, responsabilità, sacrifici e mancanza di libertà, mancanza di aria, senso di soffocamento, paura. Paura della perdita, paura dell'abbandono, paura della responsabilità, paura della sofferenza, paura di soccombere a qualcosa di più grande di me, paura della fatica emotiva, paura di non essere all'altezza di un compito troppo difficile. Paura e basta. E la paura altro non è che il sentimento opposto all'amore. La paura è il vuoto. E' un bicchiere vuoto che solo l'amore può riempire. Avere coraggio nient'altro vuol dire che avere cuore, quindi amore. L'unico vero antidoto contro la paura è l'amore. Solo sintonizzandoci sulla frequenza dell'amore possiamo uscire dalla frequenza della paura. I brividi di paura non sono altro che brividi di freddo al cuore, all'anima. Sanyu ha vissuto per 13 anni come un re. Il veterinario lo chiamava Highlander e mi ha sempre detto che, al di là di un innegabile DNA particolarmente fortunato, sicuramente il piccolo esserino aveva ricevuto molto amore, ed era evidente dal suo carattere, oltre che dal suo stato di salute. La vita che ho fatto in quei 13 anni non era poi tanto diversa da quella che faccio ora: sempre con la valigia in mano, sempre amante dei viaggi e in partenza per vacanze anche lunghe, sempre fuori dalla mattina alla sera, sempre super impegnata. Ma mai ho fatto mancare qualcosa a Sanyu, mai mi sono dimenticata di lui, mai sono stata incapace di prendermene cura, mai mi sono sentita non all'altezza di un simile compito. Né mai mi sono limitata nel godermi la vita e nel prendermi impegni di ogni tipo, lavorativi, sociali e personali. E' stato facile amarlo e prendermi cura di lui, tutto sommato. Adesso, voltandomi indietro, vedo solo fatica, impegno e responsabilità, ma quello che ho visto e provato per 13 anni era amore, quell'amore che in questo periodo della mia vita non riesco a ricordare e provare perché troppo spaventata da tutto. La paura tende a farci dimenticare la nostra capacità di amare. Il bicchiere vuoto genera una sete che possiamo placare solo amando. Spero di ritrovare presto il coraggio di riempire quel bicchiere, spero che il cuore abbia la meglio. Spero che la luce della mia Anima faccia scomparire il buio dell'Ego. E dicendo la parola 'spero', so che sto continuando a fare un errore. Devo solo decidere, non sperare. Dipende solo da me. A chi in questi mesi mi ha detto: 'Pensavo di regalarti un coniglietto ma poi non l'ho fatto perché non volevo costringerti', va il mio grazie. Sarebbe una sconfitta amare per imposizione, perché qualcuno ha scelto per me. Si ama perché si sceglie di amare, e la scelta è e dev'essere mia. Devo solo scegliere. Come sempre, come ognuno di noi in ogni istante della propria vita.
giovedì 21 novembre 2013
CARÒN DIMONIO

mercoledì 13 novembre 2013
VITA TUA VITA MEA
mercoledì 6 novembre 2013
BUONANOTTE E SOGNI D'ORO

CUORE, RESISTI!
Sono da sempre contraria all'avviso di chiamata nei cellulari. Lo ritengo indice di maleducazione, di poca sensibilità, di incapacità di entrare in empatia con le persone. Trovo intollerabile che, mentre stai parlando con qualcuno, questo qualcuno improvvisamente dica: 'oddio, scusa, mi sta chiamando Tal dei Tali' (quasi mai trattasi del Padreterno o di illustre personaggio impossibile da reperire) e ti agganci il telefono in faccia dicendo che ti richiamerà appena possibile. Esiste il diritto di precedenza, nella vita, e soprattutto esiste la buona educazione. Ti ho chiamato prima io, stai parlando con me, finisci la conversazione con me e poi chiami questa persona che, a meno che non sia affetta da gravi patologie, non si toglierà la vita per aver trovato la linea occupata. Qualcuno a cui ho fatto notare questa cosa, mi ha risposto che l'avviso di chiamata è necessario per poter stare in conversazione telefonica molto tempo senza paura di perdere una chiamata importante. Qui ammetto di avere un problema di comprensione: non riesco proprio a capire come si possa sprecare gran parte della propria vita al telefono. Ventiquattro ore (anzi sedici, tolte le canoniche otto ore di sonno) mi sembrano già molto poche per fare tutto quello che voglio fare in una giornata, non riuscirei mai a concepire di impiegare alcune ore in chiacchiere telefoniche. Preferisco la sintesi dei messaggi scritti o qualche chiacchiera a tu per tu davanti a un bicchiere di vino. Questo, però, è un problema tutto mio. Credo che il problema vero sia a monte, e riguardi la società odierna. Credo si tratti di mancanza di pazienza. Non sappiamo più cosa sia, la pazienza. Non sappiamo più aspettare. Un tempo aspettavamo la telefonata a casa, e se chiamavamo qualcuno e trovavamo la linea occupata, anche per ore, continuavamo imperterriti a chiamare finché non si liberava. Eravamo pazienti. Pazienti e tenaci. Adesso non riusciamo più ad aspettare, e non vogliamo essere aspettati. Recentemente ho appreso che in Cina per dire la parola 'pazienza' usano un'espressione che significa 'cuore resistente'. Ecco, credo che sia proprio questo il punto. Non abbiamo più il cuore, quindi il coraggio, di attendere e di farci attendere. Abbiamo solo paura. Paura di non trovare e di non farci trovare. Paura di fare un secondo o un terzo tentativo, e paura che nessuno voglia farlo con noi. Paura degli ostacoli momentanei, paura di essere fregati dal tempo. Il cuore è un muscolo, e come tale va allenato; solo così avrà più resistenza. Anche la pazienza va allenata. Peccato che non abbiamo più pazienza per farlo.
mercoledì 30 ottobre 2013
IL GIUSTO PREZZO
Mi capita da sempre e, devo dire, sempre più frequentemente, di sentire lamentele riguardo modi discutibili e 'poco ortodossi' utilizzati da alcune persone per ottenere risultati sul lavoro. L'argomento è noto a tutti: raccomandazioni di vario tipo, donne che si accoppiano a uomini di potere che le aiutano a far carriera, ruffiani e ruffiane che si fanno strada a suon slinguazzate a deretani vari, persone che sui social network si dichiarano grandi amiche di coloro dei quali poi dicono peste e corna appena fuori dalla vita virtuale, regali 'giusti' fatti a persone 'giuste', piccoli ricatti più o meno espliciti... Insomma, espedienti a cui, da che mondo è mondo, molte persone a volte prive di talento (ma non necessariamente) ricorrono per fare carriera. Premetto: capisco perfettamente l'indignazione. Capisco perfettamente la frustrazione, la rabbia, il dispiacere e il senso di ingiustizia di chi si lamenta. Capisco davvero molto bene. Posso solo dire come io personalmente l'ho superata, sperando che qualcun altro abbia la mia fortuna. Negli anni ho capito che per raggiungere un obiettivo, un risultato, e quindi anche per fare carriera, è necessario essere disposti a rinunciare a qualcosa. A volte solo in parte e temporaneamente, a volte totalmente e per sempre. C'è chi rinuncia a piccole cose, a un hobby, a una vacanza, al tempo libero, al sonno. C'è qualcuno che rinuncia ad avere figli, o a una vita sentimentale. C'è anche, poi, chi rinuncia a cose per me irrinunciabili: rinuncia al rispetto di se stesso e del prossimo, alla lealtà, all'onestà, ai propri valori e soprattutto alla propria dignità. Credo che questa sia la rinuncia più grande che un essere umano possa fare e che il prezzo da pagare in questo caso sia il più alto in assoluto. La domanda che mi sono posta, circa un anno fa, in un momento che ricorderò sempre come di grande liberazione, è stata la seguente: 'A cosa sono disposta a rinunciare io per raggiungere un obiettivo di qualunque genere e in qualunque ambito della mia vita?' A tante cose, a seconda dell'obiettivo in questione (che esige anche rinunce di diverso genere) ma MAI, in nessun caso, al rispetto, alla lealtà, all'onestà, ai miei valori e alla mia dignità. È un prezzo per me troppo alto da pagare, e non ho obiettivi per cui valga la pena farlo. La seconda domanda che mi sono chiesta è la seguente: 'Ha senso arrabbiarmi se qualcuno, invece, è disposto a pagare questo prezzo?'. No. Non ha senso alcuno. Sarebbe come vedere un oggetto molto bello ma molto caro in vetrina, potermelo pemettere, ma ritenere che sia troppo caro, che non valga quei soldi, e quindi non comprarlo, arrabbiandomi poi però se qualcuno lo compra al posto mio. La dignità la abbiamo tutti, e siamo liberi di perderla in qualsiasi momento per qualsiasi obiettivo da raggiungere. C'è chi pensa che valga la pena farlo. Io no, ma non ha senso arrabbiarmi se queste persone vogliono vivere una vita che, dal mio punto di vista, è un inferno, una vita a cui preferirei la morte. Forse per loro è il paradiso, o forse sono semplicemente disposti a vivere nell'inferno. La cosa non mi riguarda. Neanche se in cambio hanno quello che vorrei avere io. Hanno pagato un prezzo che io non sono disposta a pagare. E chi ha permesso loro di farlo, chi ha comprato la loro dignità, è sicuramente qualcuno da cui io non comprerei mai la realizzazione di un mio sogno, e non solo per il prezzo troppo alto che chiede, ma soprattutto perché non sarebbe in grado di darmi davvero ciò che voglio. Ecco perché capisco il senso di ingiustizia ma, per fortuna, non lo condivido più. Sono libera, come lo siamo tutti, di scegliere il giusto prezzo per i miei sogni. E la scelta altrui non mi riguarda più. Anche questa è libertà.
lunedì 21 ottobre 2013
INIZIO DALLA FINE

Vorrei che dicessero di me che ho saputo godermi la vita cercando di realizzare i miei sogni e quelli altrui. Vorrei che dicessero che sentiranno la mia mancanza ma che sanno che io, da lassù, voglio che siano felici anche senza di me, perché sono sempre stata contro ogni tipo di dipendenza. Vorrei che dicessero che qualcosa da me, anche dai miei difetti e dai miei errori, hanno imparato. Vorrei che dicessero che, anche se non ci sono più, ho lasciato un piccolo ricordo, ma indelebile. Vorrei essere ricordata per il mio amore per i viaggi, per il sole, per il mare e per i ristoranti, ma anche per le difficoltà superate, per i momenti bui che sembravano avermi momentaneamente buttata a terra e che invece mi hanno fortificata. Vorrei che mi ricordassero sorridente, davanti a un piatto prelibato e a un bicchiere di vino. Partire dalla fine, a volte, è centrare il bersaglio subito per poi tornare indietro, allontanarsene, prendere la mira e centrarlo di nuovo, con il vantaggio di sapere già la direzione, la traiettoria precisa, il dove, il quando, il come e soprattutto il perché.
martedì 15 ottobre 2013
VA TUTTO BENE (MA ANCHE NO)

mercoledì 9 ottobre 2013
CHI SI ACCONTENTA GODE... COSÌ COSÌ
Non riesco a stimare fino in fondo una persona che non sia ambiziosa. Noto da sempre che molte persone danno un significato negativo alla parola 'ambizione', dimenticando o ignorando la sua etimologia. Ambire (mi sono documentata, lo ignoravo anche io) deriva dal latino, ed è composto da 'ambi', che significa 'in varie direzioni, in giro,di qua e di là' e 'ire', che significa 'andare'. Ambire a qualcosa e darsi da fare per ottenerla, dal mio punto di vista,è positivo. Ovviamente, è il 'come' che fa la differenza. È il passare sopra i cadaveri, è il fregare gli altri, è essere accecati dalla brama perdendo di vista i propri valori e andando spesso contro di essi, che dà un significato negativo alla parola 'ambizione'. Ma di per sé la parola è neutra, esprime un forte desiderio e una forte volontà di realizzarlo. Voler migliorare la propria vita, in qualunque ambito -lavorativo, economico, sociale, privato, sentimentale- è segno di intelligenza, di carattere, di personalità, è un omaggio alla vita stessa. Accontentarsi non è buona cosa, dal mio punto di vista, non è saggio. Saggio, per me, è essere grati di ciò che si ha, creare amore nella realtà circostante, quella in cui ci troviamo, che momentaneamente abbiamo, vederne il bello, per far sì che questa sia un'ottima base per realizzare i nostri sogni, i nostri desideri, per far sì che la nostra realtà sia davvero come noi la vogliamo. Ma non dobbiamo smettere di ambire a qualcosa di più, a qualcosa di meglio. Accontentarsi è spesso rassegnarsi, non aver fiducia in noi stessi, negli altri, nell'universo. 'Chi si accontenta gode così così' diceva qualcuno. Meglio toglierlo, quel 'così così'. Meglio pensare che se già stiamo godendo di qualcosa, possiamo sempre provare a godere anche di qualcos'altro, a godere di più.
lunedì 30 settembre 2013
EVOLUZIONI

mercoledì 18 settembre 2013
DEL MIO MEGLIO
Mi è capitato spesso, in varie situazioni e vari contesti, di avere la sensazione di non aver fatto 'tutto il possibile', di non aver fatto ciò che andava fatto, di non aver fatto 'del mio meglio'. Credo che per sentirci sempre in pace con noi stessi, con gli altri e con l'Universo, il segreto sia appunto questo: cercare di far sempre del nostro meglio. Credo sia un nostro dovere per omaggiare noi stessi, il nostro potenziale e la nostra vita. Ma per far questo è importante innanzi tutto capire che il nostro meglio non è mai lo stesso, cambia di volta in volta. Cambia se siamo stanchi o riposati, tristi o allegri, in salute o in malattia. Cambia, insomma, a seconda delle circostanze. Dobbiamo capire che, a volte, in una scala da uno a dieci, il nostro meglio è dieci, e altre è uno. Quando è dieci, non dobbiamo permettere a noi stessi di adagiarci e di fare nove. Quando, invece, il nostro meglio è uno, non dobbiamo permettere a noi stessi di fare eccessivi sforzi e pretendere di fare due. Se non ci adagiamo mai su comodi alibi e scuse e se non pretendiamo l'impossibile da noi stessi, allora ci sentiremo sempre a posto. Se quando siamo dei maratoneti in perfetta forma corriamo dritti alla meta con tutta la nostra energia senza risparmiarci, e se quando siamo maratoneti con una gamba dolente ci sforziamo di fare con impegno, energia e fiducia i pochi passi che l'infortunio ci consente, allora avremo fatto del nostro meglio. Dare sempre il massimo e capire che il massimo di oggi può essere il minimo di ieri o di domani, non crucciandosene mai. Questo, a mio avviso, è il segreto per stare a posto con la coscienza, e per vivere una vita di qualità sfruttando al meglio le nostre risorse.
mercoledì 11 settembre 2013
DA UNA LACRIMA SUL VISO

lunedì 26 agosto 2013
ERA 'SOLO' UN SOGNO

martedì 6 agosto 2013
LOST AND FOUND
Viaggiare è una delle mie attività preferite, una delle mie priorità assolute nella vita. Non solo. Non ho paura di niente, quando viaggio. Non ho paura dell'aereo, non ho paura di alcun mezzo di trasporto, non ho paura delle malattie, non ho paura degli imprevisti, non ho paura di viaggiare sola, non ho paura di annoiarmi, non ho paura di ciò che non conosco. C'è un'unica eccezione. C'è una cosa di cui ho paura. No, non è esatto. C'è una cosa di cui ho un terrore fottuto: perdere i bagagli. Perderli quando viaggio in aereo per colpa dello smistamento caotico negli aeroporti, perderli quando viaggio in treno per colpa di una mia svista, perderli quando viaggio in pullman per colpa di qualche passeggero sbadato che scende prima di me e scambia il proprio bagaglio col mio, perderli per colpa di un ladro che me li ruba nella hall di un hotel, perderli per colpa di chiunque ovunque io sia e con qualunque mezzo di trasporto io viaggi. Insomma, fintanto che io non sono nella mia cameretta e non ho riposto tutto il contenuto del bagaglio negli armadi e cassetti a mia disposizione, non sono tranquilla. Ora, a differenza della stragrande maggioranza delle persone che convive con le proprie ansie e paure senza minimamente chiedersi il perché e soprattutto senza minimamente cercare di capire come potrebbe superarle, io mi sono posta il problema, affinché quest'ansia non mi tormenti più. Ci tengo a dire che questo timore non mi ha mai impedito di viaggiare, ma questo solo perché io da sempre rifiuto di essere schiava di una qualsivoglia paura, e rifiuto il fatto che una qualsivoglia paura mi possa impedire di fare alcunché. È un concetto a cui mi ribello con tutta me stessa, quello della schiavitù. Di ogni genere. Detto ciò, il motivo di questa mia paura è uno e uno soltanto: il vano, faticoso e dannoso tentativo di cercare di tenere sempre tutto sotto controllo. La difficoltà di 'lasciar andare', anche. L'attaccamento morboso a ciò che mi dà sicurezza, come i miei oggetti, da me scelti con cura, amore e dedizione, a cui io erroneamente associo la mia identità. Errore. Immenso, nocivo, deleterio errore. Io non sono i miei oggetti, prima di tutto. La mia identità è ben altro, per fortuna. Ma soprattutto io non posso controllare gli oggetti come non posso controllare gli eventi, i fatti, le persone. Non posso contollare la vita. Posso solo viverla, con tutto ciò che comporta, nel bene e nel male. Devo imparare a lasciar andare tutto ciò che mi appartiene. Perché niente ci appartiene del tutto, niente ci appartiene veramente, e se qualcosa ci appartiene è perché siamo disposti a lasciarlo andare. Ho capito che neanche io posso appartenere a me stessa se non sono disposta a perdermi. Devo lasciar andare me stessa, dunque, prima di tutto. Devo lasciar andare la mia vecchia identità ogni volta che voglio trovarne una nuova. Devo darmi la possibilità di perdermi per poi darmi la possibilità di ritrovarmi, proprio come i miei bagagli. Perché io sono il mio bagaglio più grande, più importante, più prezioso. Io.
lunedì 29 luglio 2013
AL CINEMA

martedì 16 luglio 2013
AL DI QUA
martedì 9 luglio 2013
(IN)CERTEZZE

mercoledì 3 luglio 2013
'GRAZIE A ME'

lunedì 10 giugno 2013
COME IL CIELO

mercoledì 5 giugno 2013
SAI, LA GENTE È STRANA
Accusiamo spesso 'la gente' di superficialità quando si limita a giudicare dalle apparenze. Non sono d'accordo, non lo sono minimamente. La 'gente', salvo essere legata a noi da amicizia profonda o amore, non è tenuta a vedere oltre quello che noi mostriamo. La 'gente' non è tenuta a psicanalizzare altra 'gente'. La 'gente' reagisce in base a ciò che vede e il biglietto da visita che porgiamo è fondamentale per il giudizio che questa 'gente' darà su di noi. E' responsabilità nostra dimostrare coerenza tra quello che appare e quello che noi siamo in realtà. Intendiamoci, siamo liberissimi di non farlo. Liberissimi di dare un biglietto da visita opposto a quello che siamo. Probabilmente lo facciamo per una forma di difesa. Probabilmente abbiamo una tale fragilità, una tale sensibilità e una tale vulnerabilità da scegliere di indossare una corazza e mostrare quella, alla 'gente'. Ma siamo colpevoli, prendiamone atto. Colpevoli di non aver capito che fragilità, sensibilità e vulnerabilità sono un pregio, un tesoro, una ricchezza. Sono quello che fa di noi degli esseri umani e quindi creature divine. (che l'aggettivo 'divine' sia inteso dai credenti come sinonimo di 'create da Dio' e dai non credenti o agnostici come sinonimo di 'meravigliose'). Siamo colpevoli di temere il giudizio della 'gente', colpevoli di considerare la 'gente' come il nemico da cui difenderci e non come persone nostre simili nel bene e nel male. Il nemico non è la 'gente', il nemico è la nostra paura. La paura della 'gente', la paura di noi stessi, la paura di essere umanamente imperfetti, la paura di vivere, la paura di ammettere che 'la gente' siamo noi.
INGREDIENTI

martedì 28 maggio 2013
IL GIOCO DELLE REGOLE

lunedì 20 maggio 2013
RESET
Mi sono sempre chiesta cosa succederebbe se potessimo, di tanto in tanto, resettare tutto, nella nostra vita, nella nostra testa, esattamente come si fa con un pc. Se tutti i file della nostra vissuta fino a quel momento, tutti i ricordi, le sensazioni, le emozioni, i desideri, i condizionamenti, i traguardi raggiunti e le sconfitte subite potessero all'improvviso, come per magia, scomparire nel nulla, lasciando nella nostra testa il vuoto totale, un vuoto pneumatico assoluto. Cosa succederebbe a quel punto? Suppongo che dovremmo ripartire da lì, da quello zero assoluto. Ma in che modo, se non abbiamo più tutti quei file che, messi insieme, generano quella indispensabile guida chiamata 'esperienza'? Cos'è che ci guiderebbe, a quel punto? Secondo quale criterio faremmo le nostre scelte? Avremmo gli stessi gusti, saremmo portati verso le stesse cose, percorreremmo le stesse strade, o comunque faremmo percorsi simili? Che peso ha la memoria storica nella nostra vita? E quanto è giusto o meno che abbia il peso che ha? Ogni singola cosa che ci accade, dal momento in cui nasciamo a quello in cui moriamo, lascia un segno indelebile, in qualche modo ci cambia, ci forgia, fa di noi quello che poi saremo. Ma noi abbiamo anche un DNA, partiamo da quello, abbiamo un carattere che è solo nostro, abbiamo gusti e tendenze istintivi, talenti innati, cose per le quali siamo naturalmente portati e altre per cui siamo irrimediabilmente negati. Mi chiedo come sarebbe la nostra vita vissuta solo ed esclusivamente in base al nostro DNA, mi piacerebbe capire come e in quale misura la vita, col nostro abile aiuto, riesce a soffocarlo.
martedì 14 maggio 2013
MADRI CORAGGIO
lunedì 6 maggio 2013
PIAZZA AFFARI (DI CUORE)
Innamorarsi delle potenzialità è come giocare in Borsa: ne puoi uscire arricchito e contento, oppure in miseria e infelice. E' facile innamorarsi delle potenzialità, ovvero di quello che una persona, una relazione, una situazione potrebbe diventare, potrebbe essere. Che al momento non lo sia ci è chiarissimo, quando ce ne innamoriamo, ma vediamo altrettanto chiaramente alcuni precisi e inequivocabili segni, indizi, accenni di una effettiva e reale possibilità di trasformazione, di cambiamento, proprio nello stesso identico modo in cui un bravo creatore di look vede una ragazza bruttina e conciata male e capisce che la può trasformare da brutto anatroccolo in cigno, o nello stesso modo in cui un bravo architetto vede un rudere e intuisce che potrà trasformarsi in reggia. Ma a noi spetta il lavoro arduo, la fatica, l'abilità di capire le tempistiche e le modalità di questa trasformazione, e soprattutto a noi spetta valutare i rischi. Non sarà facile sopportare l'eventuale nostro fallimento senza addossare la colpa al Fato o all'altra persona,. ma l'eventuale colpa è solo nostra, perché nessuno ci ha chiesto di innamorarci di ciò che che non è ma che potrebbe essere. Se lo facciamo, se decidiamo di correre questo rischio, dobbiamo essere disposti a tutto, anche al baratro. Bisogna stare talmente bene con noi stessi, essere talmente in sintonia con il nostro Io da poter rischiare con serenità, perché solo chi non ha niente da perdere non ha paura e può vincere. Solo le persone molto ricche possono giocare in Borsa con tranquillità, perché se vincono saranno ancora più ricche e se perdono saranno ricche comunque.
lunedì 22 aprile 2013
A CAVAL DONATO SI GUARDI IN BOCCA

lunedì 15 aprile 2013
COME LE QUATTRO STAGIONI
C'è qualcosa di meravigliosamente rassicurante nell'alternarsi delle quattro stagioni. Arrivano e se ne vanno puntualmente, ogni anno, segnando la fine di un periodo e l'inizio di un altro. Ci ricordano che tutto ha un inizio e tutto ha una fine, che niente è per sempre. Tutto va, tutto torna. Ma mai nello stesso identico modo. Tutto è sempre uguale e diverso allo stesso tempo. L'inverno si trasforma in primavera, la primavera in estate, l'estate in autunno e l'autunno di nuovo in inverno. Ma ogni volta sarà un inverno diverso, una primavera diversa, un'estate diversa, un autunno diverso. La natura è ciclica, è rotonda, non ha mai un vero inizio e non ha mai una vera fine. E non è mai ripetitiva, anche se sembra esserlo. Ognuno di noi ha una sua stagione preferita e il dispiacere della fine di quella stagione, la stagione del nostro cuore, ci coglie ogni anno, inesorabilmente, ineluttabilmente. Ma il passaggio è graduale, non è traumatico. Le giornate si accorciano o si allungano lentamente, i fiori lentamente sbocciano o appassiscono, le temperature gradualmente si alzano o si abbassano, la luce pian piano aumenta o diminuisce, e noi ci abituiamo a questi cambiamenti, ci abituiamo anche a quello che non ci piace. Alla fine riusciamo a trovare il buono in ogni stagione e se proprio, da creature ostinate e rigide quali talvolta siamo, non riusciamo a trovare alcuna nota positiva nella stagione che ha 'ucciso' (ma non per sempre) quella da noi amata, ce ne facciamo una ragione, e viviamo nell'attesa che quella stagione torni, certi che lo farà. Sappiamo, insomma, che i cambiamenti stagionali non sono mai definitivi. Sono solo dei passaggi. La Natura non ha niente di definitivo, siamo noi che cerchiamo ottusamente il 'per sempre' e il 'mai' in ogni cosa. Non riusciamo ad accettare che tutto sia temporaneo, che tutto sia in continua evoluzione, che tutto cambi, che tutto vada e torni a tempo debito. Eppure basterebbe comprendere il significato delle quattro stagioni. Basterebbe osservarle. Le quattro stagioni sono la metafora della vita.
domenica 7 aprile 2013
IL FANTASMA DELLA PAURA
Mi sono chiesta più volte come mai io abbia sempre alternato periodi di grande creatività ed esuberanza intellettiva a periodi di encefalogramma pressoché piatto. Ho cercato di analizzare meticolosamente (il mio ascendente in Vergine me lo impone) tutti i periodi di vena creativa e quelli di apatia cerebrale cercando di trovare un comune denominatore per entrambi, e il denominatore è sempre uno, uno solo, chiaro e inequivocabile: la paura, nella sua presenza e nella sua assenza. Ho notato che i periodi di maggiore creatività sono stati quelli in cui ho trovato il coraggio di fare qualcosa che per qualche motivo mi spaventava, ma anche quelli in cui mi sono semplicemente 'lasciata andare', ho 'mollato', ho abbandonato ogni sorta di freni e controllo. Solo in un secondo momento ho capito che anche quello era coraggio e che avevo sconfitto la mia paura più grande, quella che in tante, troppe circostanze mi ha rovinato la vita e impedito di raggiungere importanti traguardi: la paura di non avere tutto sotto controllo, la paura di non poter controllare la mia mente, la mia anima, il mio corpo, e tutto ciò che mi circondava e mi riguardava. Solo quando mi sono fidata, fidata ciecamente di me stessa, degli altri, dell'universo, della vita, la mia vena creativa è venuta fuori e tutte le cose sono andate nel verso giusto, solo in quei momenti mi sono sentita davvero bene, davvero viva. Credo di poter affermare con assoluta certezza che la paura è il nostro più grande limite e il nostro più grande ostacolo. Credo presuntuosamente di poter parlare a nome di tutti perché penso che la paura faccia parte del bagaglio dell'essere umano, che sia compagna di viaggio di tutti noi, anche se non in egual misura e non con le stesse modalità e manifestazioni. Credo anche che sia giusto così, credo che la paura sia, di sua natura, una nostra alleata, e credo che il primo fondamentale passo sia imparare a non aver paura della paura. La paura è solo un segnale dei nostri limiti e serve ad indicarci ciò su cui è necessario lavorare per migliorare la nostra vita. Dobbiamo solo imparare a riconoscerla, accettarla, accoglierla, e poi invitarla gentilmente ad andarsene, spiegandole che la sua presenza è stata utilissima fino a questo momento ma che adesso è diventata inutile perché il coraggio, alleato della nostra crescita, ha preso il suo posto. La paura se ne andrà di buon grado. La paura non ha nessun potere e nessuna voglia di farci compagnia, siamo noi che le diamo potere e che la costringiamo a rimanere al nostro fianco, perché siamo noi che la creiamo, che le diamo vita. Lei, poverina, nemmeno esiste senza di noi.
sabato 30 marzo 2013
L'UOVO DI PASQUA SIAMO NOI

lunedì 25 marzo 2013
PARTENZE E TRAGUARDI
Quando ci troviamo coinvolti in una situazione della nostra vita che non sappiamo come andrà a finire, come un amore tormentato, un problema di lavoro o un progetto non facile da realizzare, vorremmo essere in grado di conoscere il futuro in anticipo, di immaginare cosa succederà. Non a caso cartomanti, astrologi e veggenti sono sempre molto richiesti e ricchi. Vorremmo fosse possibile vedere in modalità fast forward la nostra vita, vedere anche solo una scena futura riassuntiva che ci facesse capire l'evoluzione di ciò che stiamo vivendo oggi. Spesso mi è capitato di pensare che se avessi avuto questa possibilità, se in passato avessi potuto vedere una scena della mia vita futura, sarei sprofondata nella più cupa e inconsolabile disperazione. Non avrei visto accanto a me le persone che avrei voluto vedere, non mi sarei vista in situazioni che avrei immaginato e sperato di vivere e soprattutto certe cose, certe immagini, mi sarebbero risultate incomprensibili, perché avrei totalmente ignorato il come e il perché di quelle scene finali. Ecco perché è sciocco e sbagliato voler conoscere il futuro. E' come vedere la prima mezz'ora di un film e saltare alla scena finale: il film risulta incomprensibile e soprattutto il piacere della visione dell'intera storia va totalmente in fumo. Non è importante il traguardo, ciò che accade alla fine. E' importante lo svolgimento della storia, con le scene intermediarie di collegamento tra l'inizio e la fine. Tutte, nessuna esclusa. Sono importanti i passaggi, è importante il percorso. Partenze e traguardi non sono niente senza il percorso, non hanno alcuna importanza, alcun significato, sono accadimenti privi di senso. Nella vita non è importante sapere cosa succederà, la vita è un continuo work-in-progress e bisogna viverla attimo dopo attimo, creando dei percorsi che siano essi stessi il vero e unico senso della vita. Nessun traguardo, per quanto ambito, potrà mai competere col fascino del percorso, perché il traguardo è solo un momento della nostra vita, mentre il percorso è la vita stessa.
lunedì 18 marzo 2013
IL MOMENTO DEL CLICK
Esiste un momento (a volte anche più di uno), nella vita di ognuno di noi, in cui qualcosa dentro la nostra testa fa 'click' e noi non saremo più gli stessi di prima. Una specie di punto di non ritorno in cui qualcosa cambia in maniera irreversibile e noi prendiamo coscienza di un dato di fatto che fino a quel momento non avevamo messo a fuoco: l'importanza di qualcuno o di qualcosa nella nostra vita, l'inizio o la fine di un amore, di una passione, di un odio, una condizione esistenziale, un modo di essere, un'abitudine, un difetto, un pregio, un problema a cui finora non avevamo dato importanza, oppure la soluzione a quel problema. Può essere davvero qualsiasi cosa, sta di fatto che il 'momento del click' è un momento di profonda e intensa illuminazione, senza più ombre né schermi, e può essere una benedizione come una maledizione. Può darsi che da quel momento cominci per noi il paradiso come l'inferno, ma non sarà mai più uno statico limbo dove crogiolarsi tra le soffici coltri dell'incoscienza. Da quel momento in poi la nostra presa di coscienza ci costringerà all'azione, più o meno decisa, più o meno risolutiva, e nulla sarà mai più come prima. Adoro il 'momento del click'. E' per questo tipo di momenti che vale la pena vivere.
domenica 10 marzo 2013
COME QUANDO FUORI PIOVE
Ovunque io mi trovi, da sempre, se ho sotto mano un foglio e una penna, disegno i quattro semi delle carte. Mi piacciono, mi sono sempre piaciuti, tutti e quattro, come mi è sempre piaciuto giocare a carte. Da bambina amavo giocare a carte, e giocavo con mio padre. Era il suo modo di farmi sentire la sua presenza quando mia madre non c'era più e forse anche quello di scusarsi per la sua assenza quando mia madre c'era ancora. Ero brava a giocare a carte, e soprattutto mi divertivo.Giocavamo spesso in tre, io lui e una mia amichetta, Anna. Interi pomeriggi a giocare a carte con la prima televisione a colori accesa in sottofondo e tante risate. Le prime risate dopo dieci anni di lacrime, di tristezza, di angoscia, di terrore, di vergogna. Le prime risate dopo dieci anni di emozioni violente che non dovrebbero far parte dell'infanzia. Le prime risate dopo l'ultima, definitiva disgrazia, la morte di mia madre, in seguito alla quale tutto si era messo a posto come per magia. Niente più urla, niente più musi lunghi, niente più improvvisi risvegli notturni, niente più minacce di abbandono, niente più corpi inermi accasciati sul letto da malattie o alcol, niente più dispetti, niente più accuse che volavano, niente più 'accidenti a questa figliola e a quando è nata'. Mio padre aveva una faccia diversa, parlava in modo diverso, tanto da dubitare che fosse davvero lui. Soprattutto, avevo scoperto che sapeva sorridere. Fino a quel momento pensavo non ne fosse proprio capace, pensavo che fosse stato disegnato con la bocca rivolta all'ingiù. Ma con l'arrivo della televisione a colori si era colorato anche il mio mondo. Avevo provato a chiedere un miracolo anche a quella in bianco e nero, ma il massimo che era riuscita a fare era stato coprire le liti con il volume. Quella a colori, invece, era proprio magica, caspita! Quella aveva proprio cambiato tutto! C'era solo una cosa che non era riuscita a cambiare: l'enorme senso di credito nei confronti della vita che mi portavo dietro, e la rabbia devastante per aver vissuto i primi dieci anni da sfigata. Non ero più in grado di tollerare alcun tipo di sfortuna, neanche per scherzo, neanche per gioco. Non lo ero a dieci anni, non lo ero a quindici, non lo ero a venti, non lo ero a trenta. Ero convinta che la vita fosse talmente in debito che tutto mi doveva andare bene per forza, anche una banale partita a carte. Se per dieci anni la vita mi aveva dato carte talmente brutte da non riuscire neanche a giocare, se la prima grande partita della mia vita, l'infanzia, era persa per sempre, non era forse ovvio che una banale partita a Scala 40 la dovessi vincere di diritto? Talvolta succedeva, ovviamente. Ma talvolta no, altrettanto ovviamente. Quando giochi con tuo padre, che conosce il tuo credito con la vita e in parte ne è responsabile, anche se suo malgrado, è facile che se si accorge che stai perdendo ti faccia anche vincere. Ma quando giochi con gli amici o con il fidanzato no. Loro non sanno, loro non c'entrano, loro hanno i loro crediti e non possono star dietro ai tuoi. E se vincono, se hanno il loro piccolo riscatto, impedendo a te di avere il tuo, è la fine. Ricordo solo che quando perdevo a carte vedevo nero, quel nero di quando la tv a colori non c'era ancora, quel nero di un pozzo profondo, di un tunnel senza fine, e tutto quel che riuscivo a pensare era: 'Adesso non ho più quattro, cinque, sei, sette, otto, nove anni. Adesso ne ho quindici, diciotto, venti, trenta. Adesso mi incazzo. Adesso me la paghi. Adesso ti meno, e se non posso menarti perché sono una donna e tu sei un uomo ti scaravento addosso la prima cosa che trovo. Non ti faccio davvero del male, sono troppo furba per farlo. Ti faccio solo capire che è meglio che tu non vinca, con me. La cosa ti fa ridere? Ti sembro buffa? Mi incazzo di più, urlo di più. Arriverai a temermi, ad avere paura di me come io ho avuto paura di tutto.' Ma quando vedi negli occhi altrui la paura, e sai che quella paura l'hai generata tu, cominci ad averne anche tu. E non c'è niente di più brutto dell'aver paura di se stessi. Così smetti di giocare a carte. Poi, pian piano, smetti di giocare a tutto. Perché nel gioco si può perdere, e tu non sai perdere. Non sai perdere perché non sai giocare, perché negli anni in cui avresti dovuto imparare a giocare eri impegnata a imparare a sopravvivere. Sai giocare solo da sola, come facevi da bambina. Giochi in un mondo immaginario, dove anche gli altri giocatori sono immaginari e dove a vincere sei sempre e comunque tu. Ma non ti diverti. Ti manca sempre qualcosa. Senti che è un gioco sterile, inutile, fittizio. Ti rompi le scatole, ti annoi, e allora cominci a cercare dei Maestri che ti insegnino a giocare. I Maestri del Gioco, di quel grande gioco che si chiama Vita. Li cerchi ovunque, instancabilmente, senza sosta, e alla fine la tua voglia di imparare a giocare bene, la voglia sana, accompagnata da un altrettanto sano senso di riscatto, senza più rabbia e senza più smania di cercare colpevoli da accusare, prende finalmente il sopravvento e ti indirizza nei posti dove i Maestri li trovi davvero. Quelli bravi, quelli che parlano il tuo linguaggio, quelli che sanno toccare le corde giuste per insegnarti a giocare. Quelli che hanno il loro cuore costantemente a braccetto col loro cervello. Appaiono, come per incanto, quando sei pronta, restituendoti finalmente ciò che pensavi perduto per sempre: la tua identità autentica e originaria di bambina senza macchia e senza condizionamenti, come quando la vita ancora non aveva avuto tempo e modo di lasciare segni, come quando la capacità e la voglia di giocare c'era, come quando i sogni non erano fughe ma viaggi avventurosi. Appaiono e ti insegnano. E tu non puoi fare altro che ringraziarli e iniziare a giocare.
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