
È sempre stata mia abitudine (e, credo, non solo mia) usare l'espressione: 'Incrocio le dita' ogni volta che ho avuto a che fare con qualcosa che ho sperato andasse a buon fine o con una situazione problematica che ho sperato si risolvesse. Pare che questo gesto scaramantico abbia origini religiose e sia nato nel Medioevo, epoca in cui si pensava che il diavolo potesse raggiungere le anime attraverso le dita e che incrociarle potesse dunque assicurare una sorta di protezione divina. Ai giorni nostri, comunque, è un gesto che significa soprattutto uno sperare in un po' di fortuna che faccia andare tutto bene. Non sarò certo io a dire che la fortuna non esiste, è fuor di dubbio che un po' di fortuna occorra, e ci aiuti. È bello pensare che ogni tanto accada qualche piccola magia indipendentemente dalla nostra volontà, così come accadono cose molto meno piacevoli, e che siamo sorteggiati da una ruota che gira. È anche bello pensare, comunque, che gran parte di questa magia la creiamo noi, che ad ogni nostra azione corrisponda una reazione, anche a distanza nel tempo e nello spazio. È bello pensare, soprattutto, che il modo di reagire ad ogni evento, fortunato o sfortunato che sia, sia totalmente in nostro potere, e che faccia la differenza. Questo l'ho sempre saputo, ma l'ho capito davvero a livello profondo solo recentemente. Ricordo un giorno in cui, dopo mesi in cui incrociavo le dita per una cosa che non sapevo quale piega avrebbe preso, e per un periodo che non sapevo se sarebbe stato triste o felice, ho deciso (e sottolineo la parola 'deciso') che avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per renderlo sereno e piacevole. Ero ben consapevole che non sarebbero comunque stati i giorni più felici della mia vita, perché le circostanze non lo avrebbero permesso, e proprio con questa consapevolezza, con questa presa di coscienza, non mi sono posta alcun traguardo utopistico e irrealizzabile. Mi sono solo detta che volevo con tutta me stessa che fossero giorni piacevoli nonostante le circostanze avverse; al massimo grado di piacevolezza che quelle circostanze potessero permettere, e che avrei fatto il possibile affinché fosse così. A quel punto, ho cominciato a farlo, il possibile. Ho cominciato ad agire e a chiedermi in che modo avrei potuto rendere quei giorni piacevoli. Mi sono chiesta cosa potevo fare, come potevo coinvolgere le persone attorno a me perché collaborassero e mi aiutassero nel mio intento. Talvolta non ci accorgiamo che incrociando le dita incrociamo anche le braccia e smettiamo di agire adagiandoci in una inerte posizione di attesa, come se dovessimo attendere i risvolti del destino senza poter fare niente per cambiarlo. Io, quel giorno, ho smesso di tenere le braccia incrociate e ho agito. E giorno dopo giorno, ho capito che le cose stavano già cambiando e prendendo la piega che volevo io, non quella che speravo prendesse il destino al posto mio. Sicuramente può sembrare più faticoso assumersi la responsabilità di programmare e creare la propria serenità anziché aspettare che ci venga regalata, ma personalmente trovo che la fatica sia maggiore nello stare lì a braccia conserte ad attendere che la vita decida per noi. E' come attendere l'esito di un intervento a cuore aperto di qualcuno che conosciamo e a cui vogliamo bene. Un senso di impotenza tremendo, snervante e frustrante. Diceva la grande psicologa statunitense Virginia Satir: 'La vita non è quella che dovrebbe essere. La vita è quella che è. E' il modo in cui l'affronti che crea la differenza'. Questa cosa la sappiamo tutti, e la sappiamo talmente bene che (io per prima) a volte troviamo il concetto banale e fastidioso. Eppure continuiamo spesso a non metterla in pratica, affidando la nostra sorte ad un dito medio che si incrocia con un dito indice. Peccato.
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