martedì 25 marzo 2014

L'ANGELO NELLA PIETRA

Qualche tempo fa ho letto da qualche parte che fu chiesto a Michelangelo come facesse a scolpire angeli così belli e che questa fu la sua risposta: 'Io vedo l'angelo nella pietra e rimuovo tutto quello che gli sta intorno.' Questa frase mi ha portato a grandi riflessioni su me stessa, sulla mia vita, e soprattutto su un percorso di crescita personale che mi riguarda da vicino.  La prima cosa su cui ho riflettuto è la capacità di vedere l'angelo. Non nasciamo tutti Michelangelo, dobbiamo venire a patti con questo. Non abbiamo tutti la capacità di vedere quell'angelo con la stessa immediatezza, lo stesso intuito, la stessa sensibilità, lo stesso occhio. Possiamo comunque allenarla, questa capacità. Possiamo allenare l'abilità di vedere la luce che sta in noi e negli altri. Possiamo vedere l'angelo nella nostra pietra e in quella altrui, anziché ostinarci a vedere solo la banale pietra, che sappiamo essere spesso  uno scudo proprio per non mostrare quell'angelo al mondo, magari perché abbiamo paura che qualcuno potrebbe danneggiarlo, o magari solo perché vogliamo sfidare il mondo a scoprirlo, dimenticando che, appunto, non siamo tutti Michelangelo. Altre volte ancora pensiamo invece che l'angelo sia visibile a tutti, perché non ci rendiamo conto di quanta pietra intorno debba esser rimossa, affinché l'angelo sia visibile. Viviamo la nostra vita cercando di accumulare più conoscenze, nozioni, informazioni ed esperienze possibili per arricchire il nostro bagaglio e diventare sempre più consapevoli e conoscitori, nonché esperti, della vita. Quello di cui non ci rendiamo conto è che più il bagaglio si ingrandisce, più diventa pesante. Non ce ne rendiamo conto proprio perché la pesantezza del bagaglio irrobustisce i nostri muscoli, ci fortifica, aumenta la nostra resistenza e fa sì che non ci accorgiamo del peso, che non lo sentiamo più. E questo ha i suoi vantaggi, indubbiamente. Ma il peso c'è, eccome. E più aumenta, più ci logora e più limita i nostri movimenti, la nostra agilità e flessibilità. È necessario, a quel punto, fare ciò che faceva Michelangelo con la pietra intorno all'angelo: togliere, rimuovere, levare. È necessario avere il coraggio di prendere lo scalpello e dare la prima piccola picconata, ferma e decisa, facendo cadere un primo pezzo di pietra. È necessario avere il coraggio di sentire il suono della pietra che si infrange, di vederla andare in frantumi, e di sentire quella botta allo stomaco che sentiamo quando perdiamo qualcosa che ha sempre fatto parte della nostra identità. Perché a quella pietra intorno all'angelo, che ci impedisce di vederlo e di mostrarlo agli altri, noi, siamo molto affezionati. Perché rinunciare a quella pietra significa modificare la propria identità, e niente ci dà più sicurezza che mantenere e difendere la nostra  identità, anche quando questa ci limita e ci impedisce di vivere la vita che vorremmo. È necessario alleggerirlo, quel  bagaglio. È necessario lasciar andare ogni zavorra, per quanto utile e in qualche strano modo vantaggiosa. Il nostro cervello non porta con sé niente che sia inutile, e quindi ogni cosa, ogni comportamento, ogni abitudine, ogni nostra caratteristica e modalità,  per quanto limitante, per quanto poco produttiva e controproducente, ci è stata utile e forse tuttora lo è, in qualche modo. Ogni zavorra nasconde un vantaggio che non  vogliamo perdere, per qualche motivo a volte bizzarro. E solo dopo aver alleggerito il bagaglio possiamo sentire le nostre spalle finalmente alleggerite, e renderci conto di quanto ne avevamo bisogno. Solo dopo aver cominciato a scolpire la pietra, possiamo cominciare a intravedere l'angelo. Ci sono giorni in cui non abbiamo voglia di scolpire, giorni in cui vogliamo coccolare ancora un po' la nostra pietra superflua, giorni in cui vorremo goderci ancora un po' gli oggetti dentro il bagaglio. Dobbiamo venire a patti anche con questo. Forse anche Michelangelo aveva le sue giornate particolari, quelle in cui l'angelo proprio non lo vedeva, e quelle in cui non aveva voglia di vederlo e di scolpire. Ma continuava ad essere Michelangelo anche in quei giorni. Sapeva che l'angelo era visibile e che l'avrebbe visto di nuovo. Sapeva che era capace di scolpire, sapeva quali opere d'arte meravigliose era in grado di creare. Le stesse opere d'arte che siamo in grado di creare noi. Scultori di noi stessi e degli altri. Sempre, anche quando non ne abbiamo voglia, anche quando siamo occupati a  fare altro. Michelangelo è in ognuno di noi.



lunedì 10 marzo 2014

INCROCIO LE DITA E NON LE BRACCIA

È sempre stata mia abitudine (e, credo, non solo mia) usare l'espressione: 'Incrocio le dita' ogni volta che ho avuto a che fare con qualcosa che ho sperato  andasse a buon fine o con una situazione problematica che ho sperato si risolvesse. Pare che questo gesto scaramantico abbia origini religiose e sia nato nel Medioevo, epoca in cui si pensava che il diavolo potesse raggiungere le anime attraverso le dita e che incrociarle potesse dunque assicurare una sorta di protezione divina. Ai giorni nostri, comunque, è un gesto che significa soprattutto uno sperare in un po' di fortuna che faccia andare tutto bene.  Non sarò certo io a dire che la fortuna non esiste, è fuor di dubbio che un po' di fortuna occorra, e ci aiuti. È bello pensare che ogni tanto accada qualche piccola magia indipendentemente dalla nostra volontà, così come accadono cose molto meno piacevoli, e che siamo sorteggiati da una ruota che gira. È anche bello pensare, comunque, che gran parte di questa magia la creiamo noi, che ad ogni nostra azione corrisponda una reazione, anche a distanza nel tempo e nello spazio. È bello pensare, soprattutto, che il modo di reagire ad ogni evento, fortunato o sfortunato che sia, sia totalmente in nostro potere, e che faccia la differenza. Questo l'ho sempre saputo, ma l'ho capito davvero a livello profondo solo recentemente. Ricordo un giorno in cui, dopo mesi in cui incrociavo le dita per una cosa che non sapevo quale piega avrebbe preso, e per un periodo che non sapevo se sarebbe stato triste o felice, ho deciso (e sottolineo la parola 'deciso') che avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per renderlo sereno e piacevole. Ero ben consapevole che non sarebbero comunque stati i giorni più felici della mia vita, perché le circostanze non lo avrebbero permesso, e proprio con questa consapevolezza, con questa presa di coscienza, non mi sono posta alcun traguardo utopistico e irrealizzabile. Mi sono solo detta che volevo con tutta me stessa che fossero giorni piacevoli nonostante le circostanze avverse; al massimo grado di piacevolezza che quelle circostanze potessero permettere, e che avrei fatto il possibile affinché fosse così. A quel punto, ho cominciato a farlo, il possibile. Ho cominciato ad agire e a chiedermi in che modo avrei potuto rendere quei giorni piacevoli. Mi sono chiesta cosa potevo fare, come potevo coinvolgere le persone attorno a me perché collaborassero e mi aiutassero nel mio intento. Talvolta non ci accorgiamo che incrociando le dita incrociamo anche le braccia e smettiamo di agire adagiandoci in una inerte posizione di attesa, come se dovessimo attendere i risvolti del destino senza poter fare niente per cambiarlo. Io, quel giorno, ho smesso di tenere le braccia incrociate e ho agito. E giorno dopo giorno, ho capito che le cose stavano già cambiando e prendendo la piega che volevo io, non quella che speravo prendesse il destino al posto mio. Sicuramente può sembrare più faticoso assumersi la responsabilità di programmare e creare la propria serenità anziché aspettare che ci venga regalata, ma personalmente trovo che la fatica sia maggiore nello stare lì a braccia conserte ad attendere che la vita decida per noi. E' come attendere l'esito di un intervento a cuore aperto di qualcuno che conosciamo e a cui vogliamo bene. Un senso di impotenza tremendo, snervante e frustrante. Diceva la grande psicologa statunitense Virginia Satir: 'La vita non è quella che dovrebbe essere. La vita è quella che è. E' il modo in cui l'affronti che crea la differenza'. Questa cosa la sappiamo tutti, e la sappiamo talmente bene che (io per prima) a volte troviamo il concetto banale e fastidioso. Eppure continuiamo spesso a non metterla in pratica, affidando la nostra sorte ad un dito medio che si incrocia con un dito indice. Peccato.